Walking Shadows
L’INFERNO DELL’OMBRA
Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato,
costruito o inventato
se non per uscire letteralmente dall’inferno.
Antonin Artaud
Ci sono artisti dichiaratamente affascinati dall’ambiguità della contingenza contemporanea. Eleonora Mazza lavora da sempre cercando di mettere a fuoco i fantasmi e le paure della nostra società. E lo fa con una sensibilità femminile che non prescinde dalla forza cruda dell’immagine che sceglie di rappresentare. Mario Perniola nel saggio L’arte e la sua ombra parla di una tendenza artistica contemporanea che trova nello choc una specifica rappresentazione della realtà circostante, una volontà da parte dell’artista di restituire a chi osserva una percezione più intensa di quello che accade intorno a noi nella vita di tutti i giorni. L’idea è quella dunque non di modificare il reale ma di fornirne una diversa visione, mostrando come talvolta la nostra proiezione della quotidianità non sia soltanto una labile conseguenza di come di fatto ci appare.
“Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare” scriveva Freud. Non è un ossimoro, anche se a prima vista potrebbe sembrare.
Il termine unheimlich contiene assieme i due termini “spaventoso” e “familiare” e li fa incontrare, mettendoli in relazione tra loro. E proprio il tema dell’assembramento delle folle serve a Eleonora Mazza per raccontare di un disagio che si manifesta con un rapporto diretto con la terribilità del reale. Attraverso una gestualità violenta e a volte volutamente eccessiva, l’artista attinge alcune personali suggestioni dal suo bagaglio autobiografico per riportarle ad un presente massificato. Ombre che camminano appunto, spettri dall’identità irrimediabilmente perduta e dalla coscienza smarrita. Non a caso il riferimento va direttamente alla letteratura, suggerito anche dai titoli delle opere stesse, in particolare alle anime dei gironi infernali danteschi, luoghi nei quali orde di masse si agitano senza requie. Ecco dunque che le discoteche e i rave party fanno da sfondo ad automi dai volti deformati e quasi deturpati, costruiti con una pratica pittorica materica dalla pennellata vibrante e stratificata, densa di colature per significare maggiormente lo sfaldamento del sé, il liquefarsi della mente, fino ad arrivare al puro nichilismo, all’annientamento della personalità dilaniata. Eleonora Mazza registra con precisione chirurgica le dinamiche di chi sceglie volutamente l’omologazione e l’annullamento o chi, come nel caso dei migranti accatastati come rifiuti, è costretto all’ammassamento senza una libera scelta. Lo fa con estrema libertà e con l’utilizzo di colori forti e talvolta acidi, dal grande impatto emozionale, senza alcun giudizio di sorta, limitandosi a vedere e catalogare l’abiezione circostante, individui che diventano meri involucri colmi di nulla, impossibilitati nella comunicazione di un pensiero. Anche l’infanzia mantiene la sua carica perturbante nelle opere di Eleonora Mazza in cui nulla è come sembra. Bambini dal fascino ambiguo che abbracciano pupazzi, accennano passi di danza o camminano per la strada, dall’immagine sfaldata come se fossero ricordi cancellati dalla memoria, emozioni che ci sono familiari ma proprio per questo rimosse che riaffiorano dal passato con la loro carica di angoscia. Fondamentale è la presenza dell’ ombra accanto alle figure che segnala la concretezza degli elementi e il loro ancorarsi alla terra, contribuendo a dare un senso di tridimensionalità volumetrica. Eleonora Mazza si interroga sulla definizione spaziale dell’opera, lavora con la stratificazione e la sovrapposizione delle parti, mischiando l’acrilico all’olio per giocare sulla profondità del fondo, a volte dipingendo su tele meno recenti già imbrattate di colore o lasciando affiorare la tela bianca, che diventa veicolo di profondità e parte del quadro essa stessa. Esattamente come il nostro inconscio, che non è mai lineare ma costituito da più strati che hanno il loro effettivo peso ben radicato nella nostra anima.
Francesca Baboni
Le forbici dell’anima
It’s not like I can’t look back
Without movin’ on
Europe, Hero
La nostra società debilita continuamente gli esseri che la popolano. Abituati, fin da bambini, a dover soggiacere a differenti prigionie esistenziali, ciò si riverbera continuamente anche nella vita adulta. Certe coercizioni poi, meramente materiali, obbligano l’essere a sottostare ad ulteriori restringimenti di libertà. L’individuo, in mezzo a tali costrizioni, si perde, mutandosi in un’infinità di personalità che assomigliano sempre più a maschere di un’infinita finzione. La ricerca di Eleonora Mazza s’immerge in questo nodo esistenziale. La massa viene scandagliata in tale ricerca, in nome di una latitanza d’identità da parte dell’essere quando è costretto in siffatta congiuntura. Un bisogno di socialità non canalizzata nel giusto senso pare attraversare queste composizioni, dove le persone vivono ulteriormente le loro solitudini. Nell’indagine dell’autrice viene restituita inoltre una sorta di liquefazione/modificazione dell’identità visiva dei soggetti ritratti, sintomo evidente di stabilità esistenziali perdute. Le forzature che subiscono i migranti sono presentate da Eleonora Mazza in modo sostanziale, come monito all’ulteriore deriva di persone soggiogate. Nelle elaborazioni con l’infanzia ritorna invece quella parte rimossa della personalità che martella certi animi per tutta la vita. Nelle opere dell’autrice c’è un appiglio al reale che si stratifica nella modulazione immaginifica del sembiante. Appaiono poi ombre che amplificano la concretezza dell’esistere, pur nelle falcidianti trattenute a cui è continuamente sottoposto. La persona pare disperdere la propria unicità di senso nel mezzo di tali composizioni che sanno immergersi nel mezzo del flusso delle nostre angustiate vite. Allo stesso tempo, però, certe assenze di coscienza presenti nelle diverse composizioni possono dipanare differenti viatici di senso per l’umanità.
L’abbandono di un certo tipo d’inconscio può essere un tragitto salvifico per una presa di coscienza differerente dell’esistente che ci circonda, non più campo di battaglia continua di fantasmi ma apetura all’altro in modo non costringente. Così l’individuo non si troverà più come tra le due lame di forbici del passato che si ripercuote incessantemente nel presente ma modulerà un esserci più cosciente del proprio stare al mondo. Qui è il lascito della ricerca di Eleonora Mazza.
Stefano Taddei